martedì 17 novembre 2015

Je suis Paris.




Gli attentati di Parigi: perché tutti noi pensiamo «Je suis Paris»
Alla distruzione dei simboli rispondiamo creandone di nuovi o rinnovandone altri: in queste ore le città si dipingono addosso il tricolore francese.



Ciò che risulta evidente, al risveglio dalla notte più nera di Parigi, è che lo Stato islamico è sensibile ai simboli. Lo avevamo intuito dopo l’assalto a Charlie Hebdoe considerata la retorica stucchevole con cui i jihadisti pubblicizzano se stessi. Ma in molti abbiamo voluto credere che per il giornale satirico si trattasse della reazione sproporzionata a un’offesa e, quanto alla propaganda del Califfato, ce ne siamo spesso presi gioco. Anche dopo la spiaggia di Sousse. Anche dopo il museo del Bardo di Tunisi.

La scelta degli obiettivi di venerdì notte - uno stadio di calcio, una sala per concerti, alcuni ristoranti - non lascia dubbi ulteriori sull’antipatia che i fondamentalisti provano per i nostri riti «osceni», un’antipatia che rasenta l’infantilismo. Come il ragazzo rabbioso e sadico che buca il pallone per sabotare il gioco, l’Isis sbraita agitando i kalashnikov: «Non guarderete più le partite di calcio! Non uscirete più a cena! Non andrete più ai concerti, né al mare, né alle mostre! Se non possiamo prevalere, state certi che renderemo la vostra vita molto più triste!».

Nessuno di noi crede sul serio che funzionerà, altrimenti non avremmo la forza di far proseguire il nostro mondo ogni mattina. Tuttavia, è indubbio che alla civiltà odierna sia richiesto (ormai da più di un decennio) uno sforzo di comprensione maggiore di se stessa e delle cause recondite di quanto sta accadendo. È davvero in corso un qualche tipo di resa dei conti? E per che cosa? La civiltà del benessere sta espellendo un fiotto di irrazionalità? Noi ne abbiamo colpa? Oppure una parte degli uomini ha semplicemente perso il senno? Per il momento gli atti terroristici si susseguono assai più rapidi delle interpretazioni convincenti. E, in assenza di quelle, dilagano le teorie semplificatorie, specie fra i più giovani e impressionabili.

Esiste però una reazione istintiva - e unificante - che il nostro mondo ha dimostrato di avere in seguito alle tragedie più recenti: alla distruzione dei simboli, rispondiamo con la creazione continua di simboli nuovi. O con il rinnovamento di altri che esistono già, come in queste ore, nelle quali le città si dipingono addosso i tre colori della bandiera francese. È una fucina inarrestabile ed è un veicolo di commozione che non sta perdendo il suo potenziale, anzi, lo sta aumentando sempre. Stavolta è chiaro che, dietro quella che per eccesso di pudore chiamiamo anodinamente «solidarietà», si affaccia invece qualcosa di più intenso: una professione di fede, un atto religioso. Il riferimento alla trascendenza è addirittura esplicito nell’imperativo che ricorderemo di questi giorni tetri: «Pray for Paris».

Nella sua «breve storia dell’umanità» («Da animali a dei», Bompiani, 2014), lo storico israeliano Yuval Noah Harari sostiene che «la religione può essere definita come un sistema di norme e valori umani che si fonda sulla fede in un ordine sovrumano». Secondo la sua classificazione, la fede dominante di noi occidentali sarebbe quella che lui chiama «umanesimo liberale», una fede che pone a comandamento supremo la salvaguardia della libertà di ogni individuo, che ha avuto la Rivoluzione francese come propria guerra santa, per libro sacro la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e, come eroina immortale, Marianne ritratta nel dipinto di Delacroix. Harari è del tutto imparziale nella sua trattazione: le cose sarebbero potute andare diversamente, dice, saremmo potuti diventare una società comunista, nazista, islamico-fondamentalista o magari zoroastriana, ma storicamente non è avvenuto. Ha prevalso la fede in ideali diversi: libertà, uguaglianza, fratellanza.

È pur certo che, come ogni religione, anche la nostra conosce limiti e difetti e derive di violenza. Nondimeno è la nostra, e adesso che viene minacciata in maniera grave e sistematica, occorre riconoscerla come tale, come una conquista a cui teniamo, non necessariamente eterna, e che potrebbe andare perduta se non difesa da ognuno nel proprio intimo e da tutti insieme. Per questo vestiamo i nostri monumenti e i nostri luoghi sacri - piazze, stazioni, teatri e grattacieli - con la bandiera francese: per proteggerli, perché non rischino mai la fine di Palmira, Hatra e Mosul. Intanto facciamo circolare i messaggi e ci contiamo. Se l’Isis o qualunque altra suppurazione della modernità continuerà a minacciare la nostra religione libertaria, saremo infine capaci di diventare altrettanto fanatici?

Ma adesso è il momento di piangere i morti. Com’era già successo per Charlie Hebdo, sarebbe bello se non li piangessimo solo come vittime della malasorte o di una calamità oscura e imprevedibile, bensì come martiri. Martiri caduti in nome della fede che ci accomuna, mentre ne professavano il culto. Se così faremo, forse, anche la paura si affievolirà, lo sgomento verrà riempito dalla tristezza, sì, ma da una tristezza anche piena di orgoglio. E, a partire da oggi, non rinunceremo a frequentare ancora i nostri templi, sebbene qualcuno li consideri corrotti e sbagliati. Torneremo a guardare le partite di calcio dalle tribune, ordineremo cibo impuro nei ristoranti, andremo nelle sale dei concerti a riempirci i timpani di rock, e in aereo voleremo a Parigi.


Testo di Paolo Giordano per il Corriere della Sera



Parigi spegne le luci ed il mondo le accende per lei.



Libertè  Egalitè  Fraternitè 

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